lunedì 24 novembre 2014

L'uomo nel diluvio



L'uomo nel diluvio

 


di Felice Carlo Ferrara

La crisi economica nel nostro paese perdura e così se ne parla in televisione, nelle strade, al cinema e anche a teatro. Si sono già visti tanti spettacoli sul tema del lavoro precario o sulla disoccupazione. "L'uomo nel diluvio" di Simone Amendola e Valerio Malorni sceglie, tuttavia, di spostare lo sguardo dal mondo dell'impiego al fenomeno dell'emigrazione, entrando in un campo forse meno trattato che permette di focalizzare l'attenzione su sentimenti molto intimi ed emozioni che abbiamo ancora bisogno di comprendere.



Significativamente lo spettacolo si apre con un uomo che si toglie giacca, camicia e pantaloni e cerca di ricreare sul palcoscenico il suo bagno privato, la sua vita più segreta. Non è un personaggio teatrale, è Valerio Malorni, un attore che rinuncia alla maschera della finzione per aprire una porta nel suo cuore e capire quali emozioni scuote la parola emigrazione: forse un paese straniero come la Germania può offrire prospettive di vita più alettanti da un punto di vista economico, ma sono pur sempre prospettive che escludono la propria casa e il proprio bagaglio affettivo. Nessuno può mettere in valigia la propria famiglia, la compagnia di amici, né tutto quello che un luogo o un oggetto può significare. Partire per una nuova vita è una scommessa che comincia subito con una pesante rinuncia al proprio passato. Chi emigra è forse come Noè, che sale sull'arca consapevole che tutto quello che lascia fuori dal suo bagaglio sarà distrutto dal diluvio. 




 Lo spettacolo non vuole tuttavia fermarsi a qualche riflessione. Vuole piuttosto riferire esperienze reali di vita vissuta. Così Valerio Malorni ha coraggiosamente accettato di vestire i panni di un moderno Noè e ha effettivamente affrontato un periodo da emigrato a Berlino. E quel che si offre oggi allo spettatore non è tanto uno spettacolo, quanto un racconto personalissimo operato senza filtri. Questo si traduce in un linguaggio teatrale molto povero, fatto più di parole che di azioni, supportato solo da qualche proiezione video e pochissimi oggetti scenici, un linguaggio che tuttavia può avere un impatto molto forte sullo spettatore. Tutto è infatti affidato alla sincerità con cui Valerio Malorni si confessa davanti al pubblico, e al valore di un'esperienza davvero significativa.
Perché nella grigia e fredda esistenza trascinata in quei mesi a Berlino, l'attore è riuscito a creare una breccia nella corazza del popolo tedesco, strappando al pubblico straniero una confessione toccante che, dopo tanti numeri e tante statistiche, riporta finalmente in primo piano il dato umano su quello economico.


Uno spettacolo su un tema che era necessario affrontare, quindi, ben sorretto da un Valerio Malorni capace di essere sul palco uomo prima che attore, e scritto con intelligenza.
Alla stesura del testo e alla regia ha contribuito anche Simone Amendola, già Premio Ilaria Alpi (2010), Premio Solinas (2014) e Premio Oreste per "Porta Furba".
"L'uomo nel diluvio" ha vinto il premio IN-BOX 2014.

Visto a Campo Teatrale il 15/11/2014.

L’uomo nel diluvio
Con Valerio Malorni
Idea, testo, regia: Simone Amendola, Valerio Malorni
Costumi: Maria Linda Fusella
Organizzazione: Floriana Pinto Longo
Una produzione: Blue Desk
Residenza produttiva: Carrozzerie n.o.t.
Con la collaborazione di Zètema

martedì 11 novembre 2014

Il cielo degli Orsi di Teatro Gioco Vita



Il cielo degli orsi: uno sguardo verso l'alto 
per chi ancora non può capire la vita e la morte

di Felice Carlo Ferrara

 
Un giovane orso un mattino di primavera si sveglia dal letargo e decide di diventare papà. Ma come si diventa genitori di un cucciolo? La fantasia di un bambino può essere soddisfatta da mille favole: quella della cicogna o quella del campo di rape; quando si cresce, però, diviene necessario superare le tante menzogne che coprono la verità sulla riproduzione ed entrare con una consapevolezza nuova nel mondo degli adulti.

Un cucciolo di orso, invece, si interroga sulla scomparsa del nonno e desidera conoscere l'Aldilà che immagina essere il cielo: lì forse tutti gli orsi ormai scomparsi continuano a giocare e a divertirsi come un tempo. Non sarebbe allora bello raggiungerlo subito, per rivedere i propri cari? Questo pensiero porta il cucciolo a offrirsi agli animali più feroci, ma in verità il momento della morte è per lui ancora lontano. La vita vuole offrirgli ancora nuove esperienze, esperienze terrene. E a riportarlo alla dimensione concreta dell'esistenza sarà il richiamo affettuoso dei genitori. 


"Il cielo degli Orsi" è quindi uno spettacolo in due capitoli dedicato a temi di sicuro interesse: la nascita e la morte, il tutto con il linguaggio suggestivo delle ombre che Teatro Gioco Vita anima con grazia e creatività. Nascono così momenti di straordinaria bellezza, che valgono da soli la visione dello spettacolo a un pubblico di ogni età.
Merito per gran parte delle splendide marionette, ma anche di una regia fantasiosa, che muove continuamente la scena, cerca nuovi giochi di luce e, quando sembra che tutto il possibile sia stato fatto, scompone il fondale in tanti piccoli quadri, lasciando ad ognuno un piccolo frammento di storia da raccontare. E merito di una colonna sonora notevole e di grande impatto.


Non ci possono essere dubbi, quindi, sulla qualità teatrale di questo spettacolo.
Qualche perplessità può rimanere forse per il testo, costruito per momenti molto simili tra loro e senza particolari sviluppi. Una drammaturgia, quindi, non ricca quanto l'apparato visivo messo in campo. Nonostante le situazioni narrative di partenza aprano le porte a vaste possibilità di riflessione sul mistero della nascita della vita e sulla morte, o alla possibilità di affrontare le emozioni più profonde, la scelta degli autori non è quella di immergersi in questo problematico ma affascinante campo d'indagine, quanto quello di accompagnare il bambino verso una rinuncia al proprio fantasticare su una dimensione metafisica dell'esistenza. Il Cielo degli orsi sognato dai due protagonisti non è infatti visto come volo necessario verso qualcosa di più alto per superare il dolore di una vita insoddisfacente, ma come scollegamento pericoloso verso la realtà più concreta, dove, più che i pensieri e l'immaginazione, conta l'esperienza materiale.


 Il cielo degli orsi
Dall'opera di Dolf Verroen & Wolf Erlbruch
Una produzione di Teatro Gioco Vita

Con Deniz Azhar Azari, Andrea Coppone
Regia e scene: Fabrizio Montecchi
Sagome: Nicoletta Garioni e Federica Ferrari ispirate ai disegni di Wolf Erlbruch
Coreografie: Valerio Longo
Musiche: Alessandro Nidi
Costumi: Tania Fedeli
Luci: Anna Adorno
Realizzazione scene: Sergio Bernasani

Visto nell'edizione 2014/2015 dell'IF festival organizzato dal Teatro del Buratto.

martedì 4 novembre 2014

La Sirenetta secondo Filippo Timi



Filippo Timi e il sogno del Franco Parenti

di Felice Carlo Ferrara

Filippo Timi nell'area da riqualificare

Dopo i recenti successi di pubblico riscossi in insolite programmazioni estive, il teatro Franco Parenti amplia i suoi orizzonti e si spinge a immaginare nuovi modi di interazione tra la propria struttura e gli spettatori: non è ancora chiarissimo quale sia l'obiettivo finale cui tende la direzione, ma di certo c'è la storia di un centro balneare nato negli anni '30, smembrato durante la guerra e mai più risorto, se non in alcuni locali ora rinnovati e utilizzati dallo stesso teatro Franco Parenti. L'area ancora in stato di abbandono, comprendente due piscine e una palazzina in ben 14 mila mq, potrebbe quindi essere riqualificata, aperta al pubblico e, infine, pensata come prolungamento del teatro.
Il progetto sembra piuttosto ambizioso, ma Andrée Ruth Shammah, nella sua ricerca di fondi, ha potuto contare sull'appoggio di un amico molto speciale: si tratta di Filippo Timi, che dopo gli strepitosi successi raccolti da Amleto, Favola, Don Giovanni e Skianto, ha ormai un rapporto strettissimo con lo stabile d'innovazione. L'attore e regista ha così scritto in pochi giorni un nuovo testo, ha chiamato a raccolta alcuni dei suoi collaboratori più cari, comprese le amatissime Lucia Mascino e Marina Rocco, e in un tempo brevissimo, 6 giorni, ha allestito un lavoro che deve considerarsi un abbozzo di spettacolo, più che qualcosa di definitivo. Una sorta di work in progress aperto al pubblico, i cui profitti saranno devoluti per la realizzazione del progetto.
Il tema scelto è strettamente connesso al sogno di Shammah: Timi è infatti partito dall'immagine di una bagnante degli anni  '30, ha quindi ricreato un'atmosfera retrò ispirandosi al nostro miglior cinema, e, con il consueto spirito demistificante, ha fuso il tutto con la più celebre fiaba di Andersen.



Timi e la sua Sirenetta senza abissi

Il mito della sirena è stato per secoli il simbolo del fascino e nello stesso tempo del terrore esercitato sull'uomo dall'universo ignoto e misterioso del mare; in seguito la figura della sirena è confluita nel motivo della femme fatale, della donna ammaliatrice metafora del potere schiacciante della sessualità contro la debolezza della ragione. Hans Christian Andersen, invece, nella sua celeberrima fiaba, capovolse il punto di vista e fece della creatura marina un essere sorprendentemente tenero; la sua sirenetta, ben lontana dalle armi della seduzione insidiosa, divenne ella stessa una vittima dell'amore e la sua morte solitaria si fece denuncia di un destino troppo spesso avverso ai sentimenti più autentici.
La Disney, poi, per una felice ispirazione, vide la condizione della sirena, pesce solo per metà e solo per metà donna, una metafora della difficoltà dell'adolescente nel maturare un'identità adulta in una fase che costringe di fatto a stazionare in una scomoda situazione intermedia.

Filippo Timi nel suo ultimo lavoro dal titolo La sirenetta, sceglie di mantenere il pessimismo dello scrittore danese e nello stesso tempo sembra raccogliere almeno parzialmente il suggerimento della versione animata, facendo tuttavia della sirena un'icona non della sessualità immatura dell'adolescente, ma della propria.
Marina Rocco, nella parte della protagonista, aspira a un amore con un umano e cade nell'illusione che questo possa avvenire solo acquistando una vagina, proprio come un ragazzo effeminato, nell'aspirare a un rapporto amoroso con un uomo eteresessuale, può desiderare organi genitali femminili.
Non si tratta tuttavia di uno spettacolo sull'omosessualità; la protagonista è una donna con un sentimento idillico ucciso da chi si è arreso troppo presto alla superficialità e al cinismo; solo nel finale Timi si alza e veste l'abito della sirena, suggerendo un'identificazione con la sua eroina. È dunque piuttosto uno spettacolo sulla sessualità di Timi, quella sessualità che spesso invade le sue opere e sembra ingabbiare il suo mondo. E quella che si rappresenta non sembra la realtà universale, quanto una realtà individuale, un mondo interiore dai contorni onirici.

 Filippo Timi ne La sirenetta

Non a caso Timi si affida il ruolo del regista. Come già accaduto in alcuni lavori precedenti, l'attore si pone come dominatore della scena, con la differenza che, se Amleto e Don Giovanni erano uomini che si elevavano al di sopra della realtà universale, qui Timi si eleva al di sopra della realtà della sua mente.
Ed è un mondo difficile da comprendere, un mondo che può divertire il suo creatore, ma turba e inquieta  il pubblico. Come raramente accade nei lavori di Timi, non volano molte risate tra gli spettatori. Nel corso dello spettacolo, infatti, si prova una sorta di angoscia non tanto per i protagonisti della narrazione, quanto per gli attori stessi, marionette denudate, manipolate, umiliate da un Filippo Timi che sembra voler sottoporre tutti a quello stesso sentimento di profonda frustrazione che deve albergare in fondo alla sua anima.
Non ci vengono date spiegazioni e l'intento di Timi non sembra quello di voler comprendere la propria interiorità, quanto quella di inscenarla, rimanendo immerso nel proprio disorientamento.


Siamo in una spiaggia piuttosto cupa e grigia. In questa atmosfera tetra, spicca l'insegna luminosa di un locale di poche pretese.
Sulla sabbia un Filippo Timi dall'aspetto piuttosto serio è affiancato da un uomo dalla testa di uccello, che, se rievoca Uccellacci e uccellini di Pasolini, potrebbe essere un cupo simbolo fallico e insieme un presagio di morte.
Comincia allora un monologo, di quelli caotici e ridondanti che ama scrivere Timi, e dopo lunghe perifrasi, il discorso si circoscrive ad un unico concetto: la vagina.

 Elena Lietti

Quindi entrano in scena due prostitute, poi uomini avezzi alle prostitute, figli di prostitute o essi stessi nella rete della prostituzione. Infine compare la sirenetta e se anche la sua voce non fa che ribadire l'onnipresenza della prostituzione in questo angusto universo, per un momento l'ingenuità con cui parla è un piacevole spiraglio di luce. Uno spiraglio effimero. L'ingresso della strega del mare, una donna del tutto simile alle prostitute di prima, non serve che a introdurre la protagonista nel circolo della prostituzione. E il denudamento di Marina Rocco, metafora della perdita della sua innocenza, è il momento più duro dello spettacolo.
Quindi ancora una scena dedicata al Principe di questa fiaba: un uomo un tempo tanto candido da sembrare figlio di un re, ora con un'anima nera come il cielo che lo sovrasta. Il suo incontro con la sirena, quindi, non può che portare a una morte assurda e impietosa l'ingenua protagonista.
In questo universo, quindi, non esiste che una sessualità mortifera, degradante e mercificata, mentre tutti i sentimenti hanno vita breve e stentata.
Lo spettacolo si chiude poi con una sfilata di tutti i personaggi che ricorda da vicino 8 e mezzo di Fellini. Filippo Timi costruisce infatti l'estetica del suo spettacolo citando di continuo i pilastri della nostra cinematografia. Il suo alter ego in scena ha infatti tutto l'aspetto del Marcello della Dolce Vita di Fellini, personaggio torbido e confuso con cui Timi ha forse nella vita molti punti di contatto; la prostituta della Mascino rincorre invece, con una certa fatica, la Magnani di Mamma Roma, mentre la Lietti cerca forse un'identità con la Masina felliniana. E ancora i personaggi maschili riprendono i ragazzi di periferia di Pasolini, ritraendoli con la stessa naivitè del cineasta.

 Lucia Mascino

Questi omaggi, però, non sono che un vestito per uno spettacolo che per il resto non riprende molto altro dalla nostra storia cinematografica. La personalità di Timi, infatti, non si presta molto al senso tragico di un De Sica, alla sobrietà rigorosa di Antonioni o all'eleganza di un'opera di Fellini; si compiace invece di toni scanzonati e spesso sboccati.
Con La Sirenetta siamo del resto nel mondo personalissimo di Timi, dove tutto deve calarsi all'interno di una sessualità invadente e costantemente insistita, un universo in cui il sesso sembra, più che un atto vitale, un modo per resistere ai sentimenti, per respingerli, qualcosa che paradossalmente conduce alla morte dell'individuo più che all'affermazione della vita.
Il risultato è qualcosa di profondamente contraddittorio: una drammaturgia dai risvolti tetri, eppure composta da dialoghi fin troppo leggeri; uno spettacolo corale dove tuttavia l'unica vera voce è quella di Timi; un inno al sesso che si chiude con una condanna dell'atto sessuale stesso. E anche la reazione dello spettatore può essere molto confusa. Si può infatti rimanere affascinati dalle atmosfere dello spettacolo e nello stesso tempo sentirsi respinti da una drammaturgia che si ostina a galleggiare sulla superficie senza mai inabissarsi là dove potrebbero veramente risiedere tutte le potenzialità del lavoro.

 La sirenetta
di Filippo Timi
con Filippo Timi, Marina Rocco, Lucia Mascino, Elena Lietti, 
Lorenzo Cervasio, Daniele Giulietti, Riccardo Toccacielo, Simone Nobili
Una Produzione Franco Parenti

 durata: 30 minuti