mercoledì 28 ottobre 2015

Mostri e paure addomesticate con il Teatro del Buratto

Il mio amico mostro: il Buratto ci insegna ad addomesticare le paure


recensione di Felice Carlo Ferrara


Cosa fare di tutte le paure che la notte, quando si spegne la luce, riempiono la cameretta, prendendo la forma di mostri di tutte le dimensioni? Possiamo soffocarle, facendoci forza e ripetendo a noi stessi che non esistono. Per un bambino, però, è forse più facile venire a patti con la propria paura che imporre un margine a una fantasia ancora tanto fervida.
Così la piccola Alice si mette alla prova ogni sera, non serrando gli occhi e costringendosi a dormire, ma mettendosi in relazione con le sue stesse suggestioni, divenendone infine amica. In un certo senso Alice addomestica i propri i mostri. Ed ogni volta è una nuova avventura, perché l'immaginazione infantile può creare ogni momento qualcosa di inaspettato: il comodino può trasformarsi in un mostro mangiatutto, i vestiti ammucchiarsi e inferocirsi come un drago, un disegno malriuscito prendere vita e rivendicare la propria dignità, una coperta rivelarsi una creatura sensibile e piagnucolona.



L'idea alla base di questa recente produzione del Buratto non sembrerà forse molto originale, ma alla regista Aurelia Pini non interessa creare qualcosa di innovativo, quanto avvicinarsi con cautela a un tema tanto noto quanto necessario nella formazione di un bambino e affrontarlo con la giusta delicatezza. E in questo l'operazione è di certo molto riuscita, perché per tutta la durata dello spettacolo (50 minuti) il pubblico dei più piccoli segue con vivo interesse a grande partecipazione, si eccita, prova qualche brivido e poi tira sospiri di sollievo, riconoscendosi evidentemente nella protagonista e nelle sue emozioni.



Come spesso accade nelle produzioni per bambini, anche qui la forza dello spettacolo sta più nell'apparato visivo che nella drammaturgia. Le poche e semplici battute proferite dalla piccola Alice o dalla voce fuori campo del padre, lasciano infatti largo spazio a momenti visivi spesso incantevoli, in cui può esternarsi l'arte migliore del Buratto. Così al centro della scena come dello spettacolo non è posta la bambina, ma il suo armadio che, aperte le ante, si rivela un piccolo teatrino (su nero!) nel teatro. E proprio lì dentro si svolgono le scene più magiche, con i vestiti che si animano in affascinanti pantomime o in deliziosi balletti.
E, in effetti, questi siparietti, uniti all'esilarante esibizione del mostro Piscialetto, varrebbero da soli la visione dello spettacolo!




IL MIO AMICO MOSTRO

Produzione: Teatro del Buratto
testo e regia Aurelia Pini
in scena Marialuisa Casatta, Nadia Milani, Matteo Moglianesi
scene Marco Muzzolon
disegno luci Marco Zennaro
pupazzi di Marialuisa Casatta, Elena Veggetti
direttore di produzione Franco Spadavecchia
Genere: pupazzi animati a vista, teatro su nero, teatro d’attore
età consigliata da 4 anni a 7 anni
durata 50’

visto il 25 ottobre 2015 a Milano preso il Teatro Menotti

giovedì 22 ottobre 2015

Cesar Brie per i Teatri del Sacro



La volontà: Cesar Brie

vicino a Simone Weil

 recensione di Felice Carlo Ferrara




La volontà, vincitore del bando Teatri del sacro, è uno spettacolo che mette in scena non tanto un racconto di azioni, quanto pensieri e riflessioni. Sono i pensieri di Simone Weil, filosofa e mistica nata a Parigi nel 1909, morta a soli 34 anni e nota soprattutto grazie all'impegno editoriale di Albert Camus che ne promosse le opere dopo la morte.
Il soggetto può sembrare azzardato per la scena, ma Cesar Brie parte da un'idea suggestiva. Dare un corpo, il proprio, alle misteriose iniziali C.M., che segnano in modo enigmatico la lapide di Simone Weil. In particolare Brie immagina si tratti di un infermiere che abbia vigilato su di lei negli ultimi giorni. Non gli interessa, però, comporre un ritratto dell'uomo, ma ama forse solo l'idea di potersi vedere in compagnia della scrittrice. È un modo per proiettarsi più intimamente nella vita della donna, calzando i panni di qualcuno che forse non ebbe alcuna importanza nell'esistenza della filosofa. O forse sì.
Se si pensa che proprio quell'uomo deve essere stato l'unico testimone della sua morte, di una morte attesissima, di una morte che era per la donna il passaggio fondamentale da un mondo ingannevole, impietoso e brutale, alla verità amata, invocata, desiderata, allora potremmo cambiare il nostro punto di vista e condividere la scelta di Cesar. Forse quella persona ha invece assistito agli istanti più importanti vissuti dalla donna. Vale quindi la pena soffermarsi su di lui e immedesimarsi in lui per cercare di ascoltare nel modo migliore la voce di Simone Weil.

 Catia Caramia nei panni di Simone Weil in scena con Cesar Brie

Significativamente, dunque, Cesar Brie comincia lo spettacolo raccontando non la nascita, ma la morte della donna, come fosse questo momento ad aprire realmente gli occhi della donna e a far germinare il suo pensiero. E i versi incisi sulla lapide pongono subito l'attenzione sulla parola "dolore". Simone Weil non pretese mai la felicità in un mondo che, in quanto materiale, era, a suo parere, per sua stessa natura sottrazione di Dio e quindi di gioia. Scelse invece come unica via di vita autentica la condivisione del dolore degli altri, ed ebbe il coraggio di immergersi nelle realtà più crudeli del suo tempo, sperimentando su di sè prima il lavoro in fabbrica e poi l'orrore della guerra vissuta sul fronte. Per questo il suo pensiero rimane ancora oggi fortemente attuale: perché non costruito esclusivamente con le ideologie astratte dell'epoca, ma nutrito di esperienza reale. Come elogiare allora il lavoro operaio, dopo avere assaporato tutta l'alienazione che di fatto richiede? E come credere ancora nella bontà delle istituzioni politiche, dopo aver subito su di sé l'umiliazione di chi deve sottomettersi a poteri forti, indifferenti alle esigenze degli uomini semplici?



Cesar ci racconta tutto questo, illustrando piccoli squarci della vita della donna e scegliendo brani estratti da tutte le sue opere principali, spaziando così dalla filosofia politica, all'etica, fino alla mistica. A questo aggiunge poi il suo sguardo umano, ed ecco che la Weil ci può apparire in scena non solo nella sua statura di eroina, ma anche nei suoi aspetti più buffi o più goffi. Perché il coraggio non si associa sempre  a una grandezza fisica, e anzi spicca proprio su chi invece ha poca forza su cui contare.



Il pregio maggiore dello spettacolo è quello di evitare sapientemente il tono didascalico. Il rischio era fortissimo, dovendo confrontarsi con brani di natura filosofica, ma Cesar Brie sa ovviare al problema, riportando le parole della Weil a quella forte passionalità da cui sono nati e dando uno spessore emozionale alle idee. Si susseguono quindi scene di grande impatto, costruite con immagini forti e originali, che sanno stigmatizzare il pensiero della donna.

E proprio queste immagini dal grande potere evocativo, a volte ottenute con grande semplicità (basta un muro e dei segni tracciati col gesso per illustrare la violenza della guerra o della dittatura comunista), a volte con una vena acrobatica (i due attori appesi ad un gancio possono rendere ora l'impotenza di un corpo battuto da una forza più grande, ora la leggerezza di una Simone più anima che corpo), sapranno conquistare e impressionare maggiormente gli spettatori.

La volontà è dunque un'ulteriore conferma del talento registico di Cesar Brie e insieme una conferma di tutte le potenzialità del linguaggio teatrale.

LA VOLONTA' - FRAMMENTI PER SIMONE WEIL

drammaturgia e regia
César Brie
con
César Brie e Catia Caramia
scene e costumi: Giancarlo Gentilucci
musiche originali: Pablo Brie
disegno luci: Daniela Vespa
assistenti alla regia: Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Vera Dalla Pasqua
consulenza tecnica e macchinistica: Sergio Taddei, Stefano Ronconi, Nevio Semprini, Matteo Fiorini, Gianluca Bolla
foto di scena: Paolo Porto
residenza Teatro Nobelperlapace
produzione: Campo Teatrale / César Brie

Spettacolo vincitore del Bando "I Teatri del Sacro" edizione 2014/2015

Visto a Campo Teatrale, Milano, il 18 ottobre 2015


venerdì 31 luglio 2015

Proxima Res legge I promessi sposi

 

Proxima Res cerca il sugo della storia

di Felice Carlo Ferrara 



 In un paese vittima di un malgoverno dove la politica non ha alcun pudore, preda di una classe dirigente ora oziosa, ora rapace, per due giovani comuni realizzare un progetto di vita semplice come il matrimonio diviene un'impresa veramente ardua. Potrebbe sembrare il racconto di una situazione odierna, eppure è ambientata in un Seicento lontano nel tempo, ma ancora tristemente vicino a noi per le sue tortuose problematiche e le mille contraddizioni. La realtà descritta da Alessandro Manzoni nel suo celeberrimo romanzo voleva essere un'analisi dei tanti errori del passato, ma anche una base per costruire un futuro migliore. E se questo futuro non si è ancora concretizzato, evidentemente dobbiamo ancora imparare molto dalle grandi lezioni civili di cui è ricco il romanzo.
Per questo è certo molto gradito ogni lavoro teatrale che parta dai testi di Manzoni. Il sugo della storia tenta un approccio al grande romanzo storico, mettendo in campo cinque narratori intervallati da una banda musicale di ben undici elementi. Nonostante l'alto numero di persone coinvolte, si rimane tuttavia nella mera lettura, una lettura a volte sentita e partecipata, ma mai realmente interpretata. I personaggi che animano la vicenda dei Promessi Sposi rimangono così fantasmi indistinti ancora ingabbiati nel testo e l'assenza di un taglio registico fa sì che non si aggiunga alcuna prospettiva particolare alla già ben nota voce del narratore manzoniano. Allo stesso modo gli interventi musicali rinunciano al tentativo di dare un contributo narrativo, limitandosi a creare divisorie acustiche tra un brano e l'altro.



In definitiva il lavoro della compagnia Proxima Res, pur mantenendo nella sua severa sobrietà una certa eleganza, rischia di apparire eccessivamente povero sul versante creativo e interpretativo, stentando a farsi lettura scenica e rimanendo piuttosto una semplice lettura non tanto diversa da quelle che possono consumarsi in un'aula scolastica.




IL SUGO DELLA STORIA
tratto da I promessi sposi di Alessandro Manzoni
a cura di Andrea Chiodi
musiche di Daniele D'angelo 
con caterina Carpo, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Emiliano Masala, Francesca Porrini
una produzione
Proxima Res


visto il 28 Luglio 2015 presso il Teatro Elfo Puccini a Milano nell'ambito di Padiglioni Teatro

giovedì 9 luglio 2015

Rosencrantz e Guildenstern sono morti



Rosencrantz, Guildestern e l’eterno tragico gioco del teatro

di Monica Ceccardi



Rosencrantz e Guildestern giocano a testa o croce. Rosencrantz vince sempre, per cento volte di seguito. Oltre a far sorridere, l’apertura del nuovo spettacolo di Leo Muscato ci catapulta fin da subito in un non tempo e un non luogo. Una sensazione di presagio aleggia sui protagonisti, a loro volta divertiti e straniati dal loro stesso gioco: “Sono io che non voglio vincere oppure il tempo si è fermato?” si chiede Guildestern. “Giochiamo da sempre?” gli fa eco Rosencrantz. E Guildestern ancora, sospeso come a mezz’aria in una realtà che ha perso i suoi contorni, chiede all’amico: “Qual è la prima cosa che ricordi dopo quelle che hai dimenticato?” Nessun ricordo. Un suono arriva a far esplodere la bolla onirica: eccoli alla corte del Re di Danimarca. Sono stati chiamati per capire cosa frulla nella mente di Amleto. In realtà dentro la mente di Amleto ci siamo tutti, noi come lui ci facciamo le stesse domande, essere o non essere? Gli unici tuttavia che sembrano poter rispondere agli eterni interrogativi, sono gli attori della compagnia di giro che i due protagonisti incontrano per strada. Quella stessa compagnia metterà in scena a corte La morte di Gonzalo, voluta da Amleto per risvegliare la coscienza del nuovo re assassino e di sua moglie. Rosencrantz e Guioldestern non capiscono, cosa c’è di strano: lo zio di Amleto ha ucciso il padre e ha sposato la madre, come non perdere la testa! Eppure tutti sanno tutto ma non dicono o fanno niente, e hanno convocato loro. Perché? Chi sono davvero Rosencrantz e Guildestern? Come andrà a finire? Bella domanda.
Gli attori provano lo spettacolo che faranno per il re e la regina, e provando ci raccontano della fine che faranno gli stessi Rosencrantz e Guildestern, che li stanno guardando… Gioco cupo e divertente di teatro nel teatro, condito di assurdo e grottesco, gioco che diviene funambolica ricerca di un senso che sembra sfilacciarsi ad ogni battuta. E non ci resta che sorriderne.
In fondo Rosencrantz e Guildestern sono due personaggi minori, che logica è quella che li mette al centro della vicenda? Non c’è logica. Però non possono tornare indietro, devono accompagnare Amleto in Inghilterra e consegnare una lettera. Aprono la lettera: ad Amleto verrà tagliata la testa appena arriveranno sul suolo inglese. Cosa fare? Loro sono suoi amici, però sono personaggi secondari, non possono cambiare la storia… Lo spettacolo cresce, vortica e sembra trovare una liberazione all’assurdo quando Guildestern uccide il capocomico: se non c’è spiegazione per loro, non c’è neanche per lui!  Ma la morte si fa beffe di loro, il teatro è più forte, in una sola parola: spettacolo!
Sul finale di questo gioco grottesco campeggiano sospesi sulle teste di Rosencrantz e Guildestern i cappi illuminati con i quali verranno impiccati: anche il loro amico Amleto si è fatto beffe di loro, e ha sostituito la lettera che li manderà a morire al posto suo.
Il bellissimo testo di Tom Stoppard riesce a filtrare e a illuminare la calda serata estiva del Teatro Romano, e lo fa grazie alla sua dirompente forza, declinata in comicità e profonda riflessione sulla condizione umana.
L’allestimento di Leo Muscato gioca con gli attori, dichiarando il suo intento di rispettosa restituzione dei sapori e delle atmosfere del testo. In scena un sipario rosso e un palco con ai lati le panche per gli spettatori. Il teatro nel teatro è dichiarato fin da subito. Il risultato è una versione piacevole, a tratti semplificata, dell’opera, che tuttavia ben si sposa con la freschezza degli interpreti. Il Rosencrantz di Vinicio Marchioni in bilico tra lucidità e dabbenaggine, è forte nelle sue fragilità. Il Guildestern di Daniele Liotti è lucido, anche se a tratti sembra smarrirsi in se stesso, troppo concentrato sulla sua voce e sulla sua presenza scenica. Il Capocomico Gianfelice Imparato gigioneggia nel ruolo del primo attore, con giusta flemma da navigato mestierante. Notevole il resto del cast nel tessere la trama impalpabile del teatro nel teatro, con canti, balli e scene da ottima commedia dell’arte.




ROSENCRANTZ E GUILDENSTERN SONO MORTI
di Tom Stoppard
traduzione e adattamento Leo Muscato
regia Leo Muscato
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Pietro Sperduti
personaggi e interpreti:

Rosencrantz - Vinicio Marchioni
Guildenstern - Daniele Liotti
primo attore / Amleto - Gianfelice Imparato
Alfredo / Ofelia - Beniamino Zannoni
Claudio - Andrea Caimmi
Gertrude - Andrea Bartola
Polonio - Simone Luglio
l'ambasciatore - Aldo Gentileschi
compagnia dei tragici - ensemble

Visto al Teatro Romano di Verona
il 4 Luglio 2015

martedì 7 aprile 2015

Romanzo d'infanzia




Romanzo d’Infanzia: sulla lievità di un bacio 
e la forza di un pugno

di Monica Ceccardi





Tommaso e Nina sono stati spediti a letto dai loro genitori e organizzano la loro muta protesta, fatta di sogni di fuga e di scoperta. Un Ragazzone della Montagna con una lanterna in mano porta Nina lontano, facendola ballare. Al risveglio i bimbi decidono di non andare a scuola e scappano finché finiscono in un cimitero. Nina ha paura, ma Tommaso la fa ridere mentre leggono le lapidi e si immaginano le storie di tutte quelle persone morte. Poi trovano la tomba di un bambino di cinque anni, volato via così in fretta che i suoi genitori non sono riusciti a dirgli tutte le cose che avevano nel cuore. Si chiedono cosa farebbe la loro mamma se fossero loro a morire; entrambi credono che vorrebbe loro più bene. Ora è buio, è tardissimo, i bimbi tornano a casa, mamma e papà urlano e litigano tra loro, loro si scusano, ma papà picchia Tommaso e Nina tiene tra le braccia il fratello dolente, come in una Pietà bambina, e lo cura con tantissimi bacini. I figli sono spesso invisibili agli occhi dei loro genitori. “Tommaso si possono fare i bambini a otto anni?”. Nina ci prova e partorisce un piccolissimo bimbo invisibile, che anche se è invisibile lei vede sempre, e se lo perdesse lo cercherebbe dappertutto. Tommaso gioca col bimbo invisibile di Nina, lo mangia, poi lo sputa, e lo rincorrono dappertutto, scendono in platea, giocano con il pubblico, e poi con il fuoco, che però presto divampa in un incendio. Tornano mamma e papà, gridano, cercano i bambini, eccoli, ma ora basta, basta per davvero. Questa volta Tommaso viene spedito in collegio e così i due fratellini vengono separati per sempre. Il loro addio condito di abbracci è il più lungo della storia… Passa il lungo tempo dell’attesa, Tommaso non torna e Nina fugge di casa per andare a cercarlo: l’amore per suo fratello le indica la strada. 




E così Nina e Tommaso si ritrovano e corrono via ancora una volta, forse per sempre, ballando oltre il bosco, nello stesso momento in cui i genitori a casa si chiedono perché, e atterriti come burattini non capiscono. Alla fine arriva loro una lettera: “E’ stato molto bello conoscervi, ma adesso vogliamo conoscere altra gente e altri posti. Addio per sempre, no anzi, arrivederci a presto”. La letterina ora è un lenzuolino sul quale viene proiettato un video di due bambini bellissimi che corrono liberi su una spiaggia deserta e di fronte a loro, senza fine, il mare.



La dolcezza e la violenza, l’incanto e la paura. L’infanzia e il mondo adulto. Spettacolo lieve come un bacino e forte come un pugno, di teatro puro, totale, rivolto a tutti. Stratificazione semplice e complessa delle emozioni contraddittorie che avvicinano e allontanano i grandi da loro stessi, dai loro bambini e dai bambini che sono stati. Romanzo d’infanzia è commovente, e anche necessario per riaprire spiragli di luce e dialogo tra due mondi che in realtà dovrebbero essere uno, perché da quell’uno tutto nasce e fiorisce.
Dal 1997 Michele Abbondanza e Antonella Bertoni danno vita a questa meravigliosa fiaba in cui poesia, corpo e voce danzano e dialogano. E’ un viaggio sempre più attuale, dentro la consapevolezza della centralità dell’infanzia, e del suo rispetto, nella costruzione della personalità di ciascuno di noi.
Alla fine dello spettacolo gli applausi commossi dei grandi si sono mescolati con le risate e i salti di gioia dei più piccoli. Bellezza pura.




Romanzo d'infanzia
durata 55’ - anno di creazione 1997
vincitore del Premio Stregagatto 1997/98
una produzione Quintavalla - Stori - Compagnia Abbondanza/Bertoni
testo BRUNO STORI
coreografia e interpretazione MICHELE ABBONDANZA e ANTONELLA BERTONI
regia e drammaturgia LETIZIA QUINTAVALLA e BRUNO STORI
musiche ALESSANDRO NIDI
ideazione luci LUCIO DIANA
elaborazioni sonore MAURO CASAPPA
costumi EVELINA BARILLI
fonico TOMMASO MONZA
luci ALBERTA FINOCCHIARO, ANDREA GENTILI
voce fuori campo SILVANO PANTESCO
coproduzione TEATRO TESTONI RAGAZZI
con il sostegno di MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI – DIP. SPETTACOLO 


 Visto al Teatro Camploy di Verona il 2 Aprile 2015


mercoledì 1 aprile 2015

Oratorio per Eva



EVA: dall’Eden al Caos e ritorno. 

Un esperimento di consapevolezza.



di Monica Ceccardi

 

Siamo gettati dentro la creazione dalla luce strobo che ci pone in uno stato d’urgenza e tremore. La scena è organica, viva, delimitata da pareti di boa di seta color carne. In fondo al palco a sinistra cadono dal soffitto quattro luci da stadio che circoscrivono un cerchio di luce piccolo, dentro il quale una figura nuda sorge all’esistenza. E’ un lungo parto, una gestazione ancestrale, dolce e inquietante ad un tempo. Il corpo dapprima sciolto, nel silenzio assoluto germoglia, e poi suoni elettronici scandiscono le tappe di questa nascita. Il battito cresce e lei, Eva, nasce. Si spoglia della sua nudità e si veste di rosso. Ci avvisa che questo è il suo primo giorno di vita. Sulla scena un coro di cinque voci canta i madrigali di Monteverdi, e lei felice vive, salta, manda baci e sospiri.



Poi qualcosa si spezza, ora è una marionetta rotta. Il fumo ce la nasconde un poco, mentre cinque uomini e un bambino la circondano. Lei ci dà le spalle, li osserva, e loro le gridano “puttana”, “onesta”, “donna” “tentatrice”, “furba”, “mamma”. Solo il bimbo alla fine, continua a chiamarla, “mamma, mamma, mamma…” Lei si scioglie in acqua, ha una crisi, il corpo epilettico, davanti al figlio. Quando si rianima, ci dice di avere la sensazione di essere un esperimento, nient’altro di più. Un violinista suona, il coro canta, e lei tramortita si aggira sul palco come smarrita. Guarda il cielo e sembra indicare la terra, con paura, come a chiedere a Dio perché è stata gettata quaggiù. Gli uomini ora le si inchinano davanti, in preghiera, il bimbo continua a guardarla. Ecco che allora dalla crisi Eva sembra riemergere con nuova consapevolezza: ora sa di essere bella, conosce la storia, può vedere, provare tristezza… Ora sa che è stato l’uomo a scegliere questa versione di tutto. Ci racconta di sua nonna, abusata dal padre, e di come, una volta tentato di denunciarlo, sia stata picchiata ancora, e di come l’eco di questi abusi si sia propagata su tutte le donne della sua famiglia. Però lei, Eva, vuole redimerle e redimersi. Vuole esporre quelle ferite alla luce. Questo, tutto questo che vediamo, è per lei un esperimento di fiducia, bellissimo.


 
Zappalà crea una partitura scenica mescolando diversi elementi: dai frammenti del “Diario di Eva” di Mark Twain, all’uso del coro, del violino, dell’elettronica e degli uomini in scena selezionati a Verona per quest’unica data. L’esperimento funziona grazie soprattutto alla straordinaria bravura della danzatrice Maud de la Purification, che riesce a farsi calamita vibrante di tutto ciò che le gravita attorno. Resta tuttavia il sapore di esperimento, in cui le parti che lo compongono a volte restano isolate, scisse, come smarrite. Ma Eva lo sa, lei stessa è l’esperimento. Ecco che allora la scatola del Teatro ancora una volta dichiara la sua magia, si accende e risuona al ritmo di questa nuova e antica Epifania.



Transiti Humanitatis #2
ORATORIO PER EVA
da un’idea di Nello Calabrò e Roberto Zappalà
coreografia e regia Roberto Zappalà
musiche originali Giovanni Seminerio
altre musiche Claudio Monteverdi, Madrigali (dal libro II “Non si levava ancora l’alba novella”, “E dicea l’una sospirando allora” ,“Non m’è grave il morir”)
danza e collaborazione Maud de la Purification
al violino Giovanni Seminerio
voci Quintetto Zefiro
in scena anche dieci corpi in transito
luci, scene e costumi Roberto Zappalà
realizzazione scene e costumi Debora Privitera
foto Lorenzo Gatto

il progetto Transiti Humanitatis è una produzione
compagnia zappalà danza – Scenario Pubblico international choreographic centre Sicily
in collaborazione con
Impulstanz (Vienna)
Teatro Garibaldi/Unione dei Teatri d’Europa (Palermo)
Teatro Comunale di Ferrara
Teatro Massimo Bellini Catania
“Oratorio per Eva” è, dopo “Invenzioni a tre voci”, la seconda tappa del progetto Transiti Humanitatis; ulteriore cammino di un percorso che avrà come stazione d’arrivo, inizio 2016, la produzione “I am beautiful”.

Visto al Teatro Camploy di Verona il 27 Marzo 2015