Quando Orfeo non trova che il suo riflesso
recensione di Felice Carlo Ferrara
Un protagonista scisso in due
uomini fermo in un Aldilà desolato come una soffitta in cui vivono solo ricordi
accumulati in modo caotico. Una sorta di Orfeo deciso a ritrovare la sua
Euridice, ma privato di risposte, abbandonato in uno spazio e in una dimensione
che non riesce a comprendere e in cui non trova che i propri pensieri e un
altro se stesso, una sorta di riflesso uscito da uno specchio. Ma quello che
vorrebbe fosse l’Aldilà e in cui vorrebbe ritrovare lo spirito della propria
ragazza, deceduta da anni in un incidente stradale, non si dimostra che un
luogo mentale, un ampliamento abnorme dell’ossessione per la perdita
dell’amata, un’ossessione che lo ha ormai ingabbiato e da cui fatica ad uscire.
Così della donna non si
riaffacciano che vecchi ricordi, semplici oggetti e una voce registrata e
risentita, si intuisce, mille e mille volte senza che da essa scaturisca nulla
di realmente concreto. Tutto rimane fermo nella mente dell’uomo e non ci sono
feritoie verso l’esterno, tanto da far dubitare che esista realmente un
esterno, un “altro da sé”.
Non si riflette sul dolore,
perché la ferita è ormai vecchia, ma piuttosto sulla volontà di venire a patti
con una realtà che sembra insensata e la scelta di lasciare andare quel che
rimane di un amore interrotto troppo presto, a dispetto che tutto sembri
assurdo, insensato e crudele.
Per vivere bisogna accettare
tutto quello che la vita impone, compresa quella che può spesso apparire come
un terribile illogicità.
Per quanto sia inevitabile
pensare al mito greco, lo spunto è dato da una storia vera, offerta alla scena
da Ferdinando Cotugno, qui drammaturgo. Non si raccontano tuttavia che sprazzi
di ricordi in un certo senso molto comuni, perché ciò che conta è piuttosto
l’atmosfera che si tenta di ricreare: una dimensione surreale in cui desideri,
passioni e sentimenti del protagonista acquistano un aspetto onirico e appaiono
tanto suggestivi quanto sfuggenti, come l’immagine ricorrente dello squalo
balena che apre e chiude in modo quasi monumentale lo spettacolo, e che forse
deve ispirare in noi l’idea di qualcosa di immenso, vivo e affascinante, che
tuttavia rimarrà per sempre sommerso e lontano dalle nostre coscienze.
“Come l’acqua da un bicchiere
rotto” è uno spettacolo dalla scrittura complessa e portato sulla scena da una
regia attenta e molto creativa, che sa inanellare una lunga serie di immagini
suggestive e piuttosto efficaci. Si nota inoltre la cura e la dedizione con cui
tutto il gruppo ha costruito lo spettacolo, dagli interpreti, gli ottimi Marco
Ripoldi e Libero Stelluti, capaci di toni delicati e di una ironia sempre ben
bilanciata, fino al disegno luci molto articolato e davvero lodevole.
Come l'acqua da un bicchiere rotto
Interpreti Marco Ripoldi - Libero Stelluti
regia Piera Mungiguerra
testo Ferdinando Cotugno – Piera Mungiguerra
consulenza drammaturgia Luca Franzoni
prodotto in collaborazione con Campo Teatrale
regia Piera Mungiguerra
testo Ferdinando Cotugno – Piera Mungiguerra
consulenza drammaturgia Luca Franzoni
prodotto in collaborazione con Campo Teatrale
Visto a Milano presso Campo Teatrale, il 27 novembre 2015
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