Gospodin, o del nostro trasandato
presente
di Monica Ceccardi
Gospodin ha dormito in un parco.
Lo vediamo a inizio spettacolo
sdraiato su una panchina, addormentato. Intorno a lui brandelli di città
proiettati sui sette pannelli bianchi che diventeranno ogni cosa. La
narratrice, che presto diventerà la compagna, la madre, l’amica, ci racconta di
lui. Chi è Gospodin? E’ un ragazzo che si addormenta quando è agitato, che
corre sempre, perché fugge da ciò che della realtà non accetta. Quando corre, la
città corre con lui. Il cemento corre
sulle pareti e diventa la sua casa che condivide con Annette. Li vediamo
nell’ultimo confronto prima dell’addio, perché Annette se ne andrà, stanca di
vivere con un uomo che ha scelto di auto escludersi dalla società.
La situazione precipita a causa di un
lama.
Gospodin aveva un lama che gli
riempiva le giornate, ma ora Greenpeace gliel’ha portato via. Quell’animale era
la sua manifestazione contro la società industriale. E così ora esplode la sua
rabbia. E Annette se ne va.
La casa proiettata si svuota.
Restano il palcoscenico nudo e della paglia al posto del letto.
La casa proiettata si svuota.
Restano il palcoscenico nudo e della paglia al posto del letto.
“Chi, qui, vuole cosa da chi?” si
chiede.
Non è chiaro, e Gospodin corre.
Finisce in un supermercato, fa una spesa da cinquecento euro, le pareti sono
invase da prodotti proiettati e lui balla in scena e arriva alla cassa
sorridendo: non ha il portamonete.
Perché Gospodin ha un dogma:
afferrare il capitalismo per le palle.
Per lui i soldi non devono essere
necessari. E così non vuole un lavoro, e rifiuta quelli che gli vengono
offerti. Vuole avere la libertà di non scegliere nulla, vuole solo esistere.
Ha degli amici strani; ce li racconta
un altro narratore che darà loro vita: un fantomatico artista che costruisce
opere da vecchie lavatrici e televisori e un misterioso uomo che porta sempre
una sciarpa blu e che gli chiede di poter lasciare da lui una valigia piena di
soldi che presto tornerà a prendere. Ma l’amico con la sciarpa blu muore e Gospodin
si ritrova ricco. Appena gli amici, la madre, la ex compagna, verranno a sapere
di quei soldi, inizierà un valzer strisciante di richieste alle quali Gospodin
si sottrarrà ostinatamente. Tenterà però in tutti i modi di liberarsi da quei
soldi, lasciandoli davanti ad una banca o ad un gruppetto di tossici al parco,
ma quella valigetta tornerà grottescamente sempre nelle sue mani.
Lui non vuole aver bisogno dei soldi,
vuole vivere di baratto, e invece i soldi ce li ha. Il dio denaro cresce nelle
bocche delle persone, li tramuta in mostri ipocriti, che vedono in Gospodin lo
stronzo milionario che non li vuole aiutare.
Alla fine verrà arrestato per detenzione
di denaro sporco.
Scoprirà nella prigione tutto quello
che desiderava, il suo luogo perfetto.
Lì la sua filosofia si sposerà con la
realtà. Perché la galera è il regno del
baratto, in cui non ci sono soldi: lavoro in cambio di cibo. In galera può non
prendere decisioni, e questo è il significato che lui dà alla libertà. Non si
sente rinchiuso, sa solo quali sono e dove sono i limiti. Perché in fondo cos’è
e a cosa serve la libertà se non sai dove andare?
Testo pluripremiato, lucidissimo e surreale ad un tempo, scritto dal giovane drammaturgo tedesco Philip Lohle (classe 1978), Gospodin è l’antieroe contemporaneo che tenta in tutti i modi di sottrarsi ad un mondo capitalistico votato al profitto, un mondo che sembra si sia dimenticato della radice semplice, fragile, naturale che è all’origine dell’uomo.
La messa in scena di Giorgio Barberio
Corsetti restituisce visivamente il mondo di Gospodin, con l’ausilio di
animazione grafica e video mapping. E così sembra di essere nella testa del
protagonista, nelle sue allucinazioni, nelle sue paure per finire poi di nuovo
gettati nella sconsolata realtà che lo circonda.
Gli attori, in questo mondo
sghembo, sono soli a dover fare i conti con personaggi che scivolano loro addosso senza
che possano o riescano del tutto a fermarli. E’ un’umanità sfuggente, sperduta.
E così le donne, interpretate con verve istrionica da Valentina Picello, sono
figurine svuotate di vita, ma cariche di ironia. Lo stesso accade per le figure
maschili impersonate da Marcello Prayer, energico nel delineare i personaggi
che incontrano e si scontrano col protagonista.
Il Gospodin di Claudio Santamaria
danza in questa regia sciolta oscillando tra una fragile umanità e una levità
surreale, eppure ci sono momenti in cui sembra spezzarsi qualcosa. Sono piccole
fratture, spiragli di luce da cui filtra la forza del testo: emerge così, nell’interpretazione
di Santamaria, una caratteristica centrale della personalità di Gospodin, il
suo essere, o non poter più essere, l’anti-eroe di questo nostro trasandato
presente.
Gospodin
di Philipp Löhle
traduzione Alessandra Griffoni
a cura del Goethe Institute
con Claudio Santamaria, Valentina Picello, Marcello Prayer
regia Giorgio Barberio Corsetti
scene Giorgio Barberio Corsetti, Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
graphics Lorenzo Bruno, Alessandra Solimene
video Igor Renzetti
musiche Gianfranco Tedeschi, Stefano Cogolo
regista assistente Fabio Cherstich
traduzione Alessandra Griffoni
a cura del Goethe Institute
con Claudio Santamaria, Valentina Picello, Marcello Prayer
regia Giorgio Barberio Corsetti
scene Giorgio Barberio Corsetti, Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
graphics Lorenzo Bruno, Alessandra Solimene
video Igor Renzetti
musiche Gianfranco Tedeschi, Stefano Cogolo
regista assistente Fabio Cherstich
una produzione Fattore K. / L’UOVO Teatro Stabile Di Innovazione
in collaborazione con Romaeuropa Festival
Visto al Teatro Camploy di Verona il 6 Febbraio 2015
Nessun commento:
Posta un commento