"Ero": Cesar Brie racconta se stesso
di Felice Carlo Ferrara
Dopo una inesausta
ricerca teatrale condotta per anni, ora accostandosi a grandi classici della
letteratura, ora affrontando scottanti tragedie della nostra attualità, ora
analizzando gravi mali sociali, Cesar Brie con il nuovo spettacolo Ero sposta lo sguardo su se
stesso, per affrontare la realtà della propria maturità e tentare un bilancio della
propria vita, se non addirittura un autoritratto che restituisca parte della
sua identità.
Il regista disegna
quindi sulla scena una grande x, al cui centro mette se stesso, uomo e attore,
e sulla cui periferia fa invece riemergere le figure dai cui incroci è derivata
dapprima la sua nascita e quindi la sua esistenza, con le sue scelte e le sue
caratteristiche peculiari. A ognuno di questi fantasmi è concesso un tempo
breve, secondo un linguaggio sintetico che abbozza i protagonisti
con pochi segni e poche parole e fermando solo quei momenti che si
sono fissati maggiormente nella memoria. Così della figura paterna ascoltiamo
soprattutto il silenzio con cui esprimeva la propria riservatezza, scopriamo la
passione per i libri, forse l'eredità maggiore lasciata al figlio, e d'un
tratto la confessione dell'amore per la famiglia strappata durante un evento
temibile che, paradossalmente, si muta in uno dei momenti più teneri e
necessari, prima che la morte lo spazzi via.
Ancora si
susseguono la madre, la sua anaffettività e la depressione che la allontana dai
figli, quindi la nonna, l'orgoglio per la sua bellezza e l'ironia sulla sua
vanità, i fratelli, le sorelle, i primi baci e, naturalmente il teatro. E
proseguendo in questo viaggio fatto di ricordi, l'io si allontana man mano
dalla cerchia familiare per confrontarsi col mondo esterno. Lo sguardo, dunque,
si allarga e Cesar Brie supera i limiti di un racconto intimistico,
restituendoci anche efficaci finestre sulla nostra realtà in cui si affacciano
gustose caratterizzazioni che fotografano lo snobismo delle classi sociali più
alte o la meschinità della nostra politica.
Il percorso
tracciato dal regista argentino non è tuttavia lineare, ma piuttosto circolare,
come spesso accade alle parabole delle nostre esistenze: così alla spinta per
l'emancipazione, data forse dalla delusione degli affetti familiari, segue una
rinnovata delusione per la vita artistica, dura e solitaria quando viene a
mancare una rete solidale tra società, politica e artisti, e quindi una
rivalutazione della sfera affettiva. In questo cammino a spirale, forse l'unico
perno stabile è l'io bambino, quello da cui si tenta di fuggire per realizzare
il sé adulto, ma che spesso si rimpiange e che probabilmente racchiude il
segreto della nostra reale identità.
Come sempre Cesar
Brie realizza uno spettacolo ben equilibrato, in cui ogni momento drammatico si
controbilancia con improvvisi slanci di ilare vitalità e dove l'uso
intelligente dell'ironia trova il modo giusto per realizzare i necessari
trapassi da una atmosfera all'altra. Così anche nel linguaggio teatrale, si
ritrova la consueta sapienza del regista argentino per cui la parola,
l'immagine e l'interpretazione non si scavalcano mai tra loro, ma, al
contrario, concorrono per realizzare al meglio e nel modo più completo il
momento scenico.
Ero
scritto, diretto e interpretato da Cesar Brie
scene e costumi: Giancarlo Gentilucci
musiche: Pablo Brie
disegno luci: Daniela Vespa
burattino di Tiziano Fario
assistenza: Marco Rizzo, Tiziana Irti, Claudia Ciuffreda
residenza: Teatro Nobelperlapace
produzione: Arti e Spettacolo, Cesar Brie.
In collaborazione con Teatro Stabile d'Abruzzo
Visto presso Campo Teatrale di Milano
Nessun commento:
Posta un commento